(di Sebastiano Saglimbeni). Leggo Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini, un breve, tra tanta copiosa poesia, capolavoro dedicato ad un uomo ucciso dalle  galere del regime fascista. Pasolini vive a Roma da alcuni anni, dopo  la “fuga” del 28 gennaio 1950 dal Friuli assieme alla tanto adorata madre, la maestra elementare Susanna Colussi. Anni di  miseria nella capitale  per il “ fuggitivo” già svuotato di quell’amore che godeva in tutto il paese friulano di Casarsa e dintorni, laddove era “considerato un piccolo profeta” e, dopo, in seguito a brutte vicende, tutto “sconvolto e furente contro di lui”, come scriverà  lo scrittore  Paolo Volponi.

A Pasolini ancora sanguina quella ferita per la morte tragica del giovanissimo fratello Guido, partigiano della Brigata Osoppo. Tuttavia, gli rimangono il valore della creatività e la forte volontà  di conoscere la Roma postbellica con le sue periferie, dove in vero rinascerà  grandemente per finire, poi, come si sa, tragicamente. Durante una sua visita al Cimitero degli inglesi, che sorge tra Porta S. Paolo e il Testaccio, comunica con le ceneri di Antonio Gramsci un giorno di maggio del 1954 dall’ “impura aria”, che ”cieche schiarite” abbagliano.

lettura dele ceneri di Gramsci
Pier Paolo Pasolini

E compone il sopraddetto capolavoro che reca la data 1954, editato nel numero 17-18  della rivista “Nuovi argomenti” nel novembre – febbraio 1955-1956. Di qui ad un anno, con altri testi, dall’editore Garzanti. A questi,  il poeta scrive: “Questo è il libro su cui io punto di più, magari per debolezza: la debolezza di chi ha cominciato a scrivere versi a sette anni; e ora si trova con  un volume di versi che è il risultato di quasi trent’anni di passione e di lavoro”. 

   Tratti de Le ceneri oggi si possono leggere in alcune antologie allestite per le Scuole medie superiori. Pasolini con questa sua poesia civile disegna per prima uno spaccato di paesaggio romano con in esso, nella “magra serra”, il grande politico antifascista cenere. 

Non è di maggio questa impura aria/ che il buio giardinostraniero/ fa ancora più buio, o l’abbaglia/ con cieche schiarite(…) questo cielo/ di bave sopra gli attici giallini/ che in semicerchi immensi fanno velo/ alle curve del Tevere, ai turchini/ monti del Lazio… Spande una mortale/ pace, disamorata come i nostri destini,/ tra le vecchie muraglie l’autunnale/ maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,/ la fine del decennio in cui ci appare/ tra le macerie finito il profondo/ e ingenuo sforzo di rifare la vita;/ il silenzio, fradicio e infecondo...”. 

Versi lineari, che ci rievocano le terzine dantesche e la poesia nuova di Giovanni Pascoli, l’autore che Pasolini aveva trattato nella sua tesi di laurea discussa a Bologna. Versi alti, non sempre agevoli, che prendono un’atmosfera  greve,  grigia, sparsa da una pace mortale. Un maggio  che non è “odoroso” e che non “risveglia i cuori”, ma impuro, snaturato con intorno gli attici  giallini e l’orogenesi laziale cupa. Un maggio come in questo 2024, piovoso e sporco, con nel nostro Paese.

Versi, che generano, genereranno non poche riflessioni in colui che  legge  con interesse la poesia e conosce il pensiero di Gramsci. Non a torto, il saggista Giacomo Debenedetti  propone Pasolini come un suo candidato al Premio Viareggio. Il cugino Nico Naldini scrive, a proposito de Le ceneri:Cosciente della crisi della cultura che l’ha preceduto per un eccesso di poeticità ai danni del razionale e dello storico, Pasolini ha voluto ricondurre la poesia entro limiti più umili e umani, investendo nel sentimento politico un intero modo di vivere e di pensare. Da qui è nata la necessità del nuovo stile che è andato attuandosi attraverso un atto ideologico, anche se appassionato e indeciso“.  

Edoardo Sanguineti, un decennio più giovane di Pasolini, un poeta dei cosiddetti “nuovissimi”, che si rivelerà uno dei valorosi saggisti di questo nostro tempo, gli scrive: “Voglia accogliere i miei complimenti più sinceri per le meritatamente premiate sue Ceneri di Gramsci (…) certe evidenti differenze a fratture  tra la “ Sua e la mia (si parva licet…) poetica e poesia (accompagnate da parallele differenze e fratture di temperamento e di carattere) non mi impediscono (e spero non mi impediranno mai, poiché, ahimè, o per fortuna, si capisce, siamo uomini) di ammirare nella Sua opera tutto ciò che vi è di degno, di intelligente, di veramente importante; e io spero che continueremo a litigare insieme per un pezzo, che sarà, per la nostra amicizia, il nodo più certo e fecondo di esistere e di giovare, a me e (se me lo concede) anche a Lei”.

Nelle terzine che seguono, Gramsci è rievocato giovane nel “maggio in cui l’errore/ era ancora vita, in quel maggio italiano/ che alla vita aggiungeva almeno ardore”. Dopo, rievocato “umile fratello”, che con la sua mano scarna  “delineava l’ideale che illumina/(ma non per noi: tu, morto, e noi/ morti ugualmente, con te, nell’umido/ giardino) questo silenzio. Non puoi,/ lo vedi?, che riposare in questo sito/ estraneo, ancora confinato. Noia/ patrizia ti è intorno..”.

E  si rifletta sulla “noia patrizia” con il poeta consunto dal buio interiore e, si accennava sopra, dalla nera miseria, tra i vivi-morti. Incisivi altri versi che recitano: “Qui  il silenzio della morte è fede/ di un civile silenzio di uomini rimasti/ uomini”. Non meno nella IV parte del poemetto, i versi che recitano: “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere/ con te e contro di te; con te nel cuore,/ in luce, contro di  te nelle buie viscere”/ del mio paterno stato traditore-…..”. Uno scatto pessimistico, quando  Pasolini, finendo di poetare, considera  la vita  “un brusio”, con il seguente interrogativo: “Ma io con il cuore cosciente/ di chi soltanto nella storia ha vita,/ potrò mai più con pura passione operare,/ se so che la storia è finita?” 

    La vita un brusio per Pasolini, un “ronzio di un’ape dentro un bugno vuoto” per il suo poeta prediletto Pascoli. All’interrogativo di sopra, si può rispondere con lo stesso Pascoli:  “… qui dove quasi  è finita la storia, resta la poesia”. Il poeta – professore lo scriveva in una lettera ad un collega dopo la tragedia del terremoto del 1908 che distrusse Messina e Reggio Calabria.