L’emicrania è una patologia neurologica che tormenta, si calcola, dai sette agli otto milioni di persone, il 7/8% della popolazione italiana. Si manifesta con una cefalea che si scatena in modo ricorrente. La sua eziologia non è nota, ma si suppone sia determinata da una combinazione di fattori ambientali e genetici. Sono anni che si cerca di comprenderne la causa, perciò la terapia per adesso è solo sintomatica, pur con dei notevoli progressi. Oggi i ricercatori ripongono grande speranza speranza negli anticorpi monoclonali, che sono l’ultima novità come cura.

In dicembre s’è tenuto a Vienna il sedicesimo congresso della European Headache Federation nel quale si è parlato di un anticorpo monoclonale messo a punto da Teva. Uno studio europeo di cui fanno parte diversi centri dislocati di tutta Europa ha monitorato un gruppo di pazienti che n ricevono il trattamento con questo farmaco. “Sono stati presentati dati preliminari su un’analisi ad interim perché lo studio è ancora in corso – ha osservato Simona Sacco, docente di Neurologia all’Università dell’Aquila.- ma questi dati ci fanno vedere che nella vita reale la risposta a questo anticorpo monoclonale è migliore di quelle che erano le attese basandosi sui risultati degli studi clinici randomizzati. Questo – prosegue la neurologa – è un dato importante, se si tiene conto che negli studi che hanno portato poi all’approvazione del farmaco erano inclusi pazienti con un basso impatto dell’emicrania e che non avevano alle spalle precedenti fallimenti terapeutici. Nello studio Pearl i pazienti esaminati erano invece molto complessi, con alto impatto dell’emicrania e che avevano già fallito precedenti terapie. È stato riscontrato un 50% in più di ‘responders’, cioè di persone che hanno risposto alla terapia”. “Un altro dato – ha precisato Simona Sacco – è relativo invece allo studio Finesse, effettuato in Germania e Austria su 150 pazienti trattati con l’anticorpo monoclonale di Teva dopo essere prima passati per una terapia orale poi per un altro anticorpo monoclonale che avevano fallito. Anche in questo gruppo specifico e complesso di pazienti, si è osservato che l’anticorpo monoclonale di Teva dava dei tassi di risposta tra il 35 e il 40%. Un risultato davvero positivo, se si pensa che questo trattamento era per questi pazienti una sorta di ultima spiaggia”.